Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal vengono sequestrate, selvaggiamente torturate e uccise il 25 novembre 1960 per mano degli agenti del servizio segreto militare del dittatore dominicano Rafael Trujillo, assassinato l’anno seguente all’esisto di una sempre maggiore deplorazione della popolazione del suddetto Paese sud-americano. Conseguentemente, sulla scia dei movimenti attivisti per i diritti delle donne, il 17 dicembre 1999 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione 54/134, designa il 25 novembre come la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, sollecitando Governi, organizzazioni internazionali e ONG affinché approntino giornate e iniziative al fine di sensibilizzare e informare l’opinione pubblica circa la problematica della violenza sulle donne e sui potenziali esiti drammatici ad essa conseguente.
La violenza
Quando si parla di violenza, si indica quell’esternalizzazione del comportamento umano che intacca e distrugge “la dignità, la libertà e i diritti di una persona, di cui l’omicidio costituisce la forma estrema per silenziare l’individuo” (Zara & Gino, 2018, p. 1; tda mia). Nonostante la violenza non sia esclusivamente unidirezionale, in quanto anche le donne possono identificarsi nel ruolo di perpetratrici, le stesse hanno una maggiore probabilità di essere vittime delle più diverse forme di violenza agite nei loro confronti da parte di un uomo, tra cui rientrano sia manifestazioni più evidenti quali la violenza domestica e l’abuso sessuale, sia espressioni più subdole come l’abuso psicologico ed economico. Certamente, tuttavia, il più drammatico esito della violenza consiste nel suo sfociare nell’uccisione della donna.
Il femminicidio
Non è soltanto un dovere etico e morale in capo agli addetti ai lavori in ambito medico-sanitario (medici, psicologi, psicoterapeuti, psichiatri) e giurisprudenziale (includendovi anche la figura professionale del criminologo clinico di qualsiasi formazione accademica), bensì anche un dovere civile da parte di tutti i consociati rivolgersi all’assassinio di una donna per mano di un uomo utilizzando il concetto di femminicidio, in quanto non ci si sta riferendo ad uno dei tanti possibili casi di omicidio di cui si ha notizia attraverso i mass media, piuttosto all’omicidio “di una donna per il fatto di essere donna, quindi per esempio l’uccisione della partner infedele, o anche solo ‘disobbediente’, o in procinto di lasciare un marito magari dopo anni e decenni di soperchierie e di violenze” (Merzagora, 2023, p. 43).
Il lemma femminicidio viene usato per la prima volta dal giornalista statunitense John Corry agli inizi del XIX secolo per veicolare il significato dell’uccisione di una donna. In seguito, nel corso degli anni, si è sempre più riconosciuto il femminicidio in qualità di “estrema forma di violenza nei confronti di qualcuno appartenente al genere femminile” (Cecchi et al., 2022, p. 1; tda mia), giungendo ad includere nel suddetto concetto non soltanto gli omicidi commessi dal partner o dall’ex partner, ma anche quelli commessi per mano di parenti a seguito della ribellione della donna al controllo ossessivo di tutti gli aspetti della sua vita da parte dei primi, così come quelli perpetrati da un “un uomo, indipendentemente dal tipo e dall’intensità della relazione, a causa dell’esercizio di potere o dominanza, per ragioni di odio, disprezzo, passione o senso di proprietà della stessa donna” (Zara & Gino, 2018, p. 3; tda mia).
Dunque, in definitiva, riprendendo il pensiero dell’antropologa messicana Marcela Lagarde già espresso da Russell nel 2011, Merzagora (2023) informa che con femminicidio si intende
la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei loro diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso condotte misogine – maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria o anche istituzionale – che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia. (p. 43)
Esiste un linguaggio comune quando si parla di femminicidio?
Oggigiorno, telegiornali, radio e siti web si sono impadroniti del concetto di femminicidio nel loro costante raccontare dei numerosi casi di omicidio di una donna, quasi sempre ad opera del partner. Tuttavia, se da un lato è fondamentale smettere di alimentare il silenzio in relazione ai casi di violenza nei confronti delle donne e di femminicidio, dall’altro lato le modalità tramite le quali i mezzi di comunicazione di massa veicolano le suddette informazioni spesso non tengono conto che ogni essere umano interpreta messaggi, segnali e dati sulla base dei propri schemi cognitivi, delle proprie esperienze personali e delle proprie credenze sociali.
In altri termini, dall’incontro dei propri sistemi di credenze con i termini utilizzati dai mass media per comunicare i casi di criminalità e, nello specifico, di femminicidio, avrebbe origine una sorta di pozzo delle conoscenze dal quale le persone trarrebbero principalmente spiegazioni e affermazioni dettate essenzialmente dall’ideologia e dalla politica, creando “informazioni viziate da imprecisione, confusione e pregiudizio” ed influenzando “non solo i giudizi specifici relativi ai singoli eventi di criminalità riportati, ma le rappresentazioni sociali della stessa” (Zara, 2005, p. 119). Ecco, dunque, che il panico morale di cui parla Jenkins (1998) ha origine dalla modalità di presentare il problema agli occhi dell’opinione pubblica. Secondo l’autore, è fondamentale che i mass media riportino informazioni giuste ed accurate, di modo che il pubblico spettatore sia in grado di capire come i vari aspetti della società funzionano e non come dovrebbero funzionare, evitando generalizzazioni riduttive di ciò che costituisce veramente il problema.
Parallelamente, appare riduzionistico e irrispettoso pensare alla drammaticità di tali fenomeni esclusivamente in termini di un loro mero incremento statistico e numerico, “mentre è legittimo aspettarsi che con il crescere della civilizzazione di un Paese essi si riducano drasticamente” (Merzagora, 2023, p. 44).
Eppure, permangono commenti populisti circa la non necessità di utilizzare un termine specifico, racchiudente il significato dell’uccisione di una donna per il solo fatto di essere tale, i quali si appellano di controparte all’occorrenza di un termine riservato esclusivamente all’uccisione di un uomo. Oltre al riferimento al mero dato statistico, che riporta costantemente numeri elevati di femminicidi rispetto alle uccisioni di uomini da parte di donne, per ribattere ai suddetti commenti è sufficiente pensare che, con l’ennesimo ricorso al maschile estensivo della lingua italiana, il nostro vocabolario già contiene il lemma omicidio, ossia il delitto di un uomo (dal latino homicidium, composto di homo, uomo, e –cidium, uccisione), in un chiaro riferimento al genere maschile.
Più complessa è la riflessione sul perché di una tale resistenza ad utilizzare il sostantivo femminicidio. Probabilmente, la teoria culturale ci permette di concludere per una trasmissione intergenerazionale, specialmente nel mondo occidentale, di convinzioni reificanti e misogine in ordine alle donne, ritrovandone spunti da Seneca (“al padre soltanto spetta il diritto di uccidere”) al Codice napoleonico del 1810, al cui articolo 23 si può leggere: “Il marito deve protezione alla moglie che, come contropartita, gli promette obbedienza”.
Inoltre, bisogna considerare l’influenza che in Italia ha avuto, e ha tutt’ora, la Chiesa di Roma la quale, rinnegando le rivoluzioni socio-culturali e scientifiche in tema di sessualità umana e veicolando da secoli l’imago femminile intesa come fonte di tentazione e di peccato, ha contribuito alla creazione di una struttura sociale fallocentrica e misogina. Messaggi, questi ultimi, ormai appresi da molti individui che decidono inconsciamente di non dare nome all’uccisione di una donna per contrastare la paura di veder sgretolarsi il proprio essere maschio di fronte all’uguaglianza.
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